Suicidi nei giovani, Micheli: “Conosco ragazzi che hanno attraversato il buio e ce l’hanno fatta”

 

“Conosco dei ragazzi che ce l’hanno fatta, che hanno attraversato il buio. Attraverso l’ascolto, la cura e l’aiuto è possibile uscire da situazioni drammatiche, non per allontanarle e buttarle via, ma per accettarle e affrontarle”. Sara Micheli è medico neuropsichiatra infantile, Direttrice sanitaria del Polo di Neuropsichiatria infantile e del Centro diurno della Cooperativa Gamma al nostro Civico81.

 

Nella settimana della Giornata dedicata alla salute mentale, abbiamo voluto affrontare con lei il tema delicato, complesso e urgente dei suicidi nei preadolescenti e adolescenti. “L’Organizzazione mondiale della sanità – descrive la dottoressa Micheli – ha indicato il suicidio come una delle principali cause di morte tra i giovani. In Italia l’stat ha registrato che i suicidi rappresentano ben il 12% dei decessi tra ragazzi che hanno tra i 15 e i 29 anni. Negli ultimi due anni, c’è stato un picco di accessi al Pronto Soccorso e ai servizi d’urgenza per tentati suicidi o autolesionismo. Segno che la pandemia ha avuto degli effetti pesantissimi sui giovani. Un effetto che c’è ancora oggi, aggravato dalla continua situazione di incertezza che stiamo vivendo. Ovviamente questo aumento generale si fa sentire anche sui territori, quello cremonese compreso”.

 

Tra le cause, sicuramente l’isolamento forzato dovuto all’emergenza sanitaria. “I ragazzi dai 14 anni in su – spiega la neuropsichiatra – hanno bisogno del contatto sociale per il loro sviluppo psicofisico. Per un adolescente non poterlo avere, e per un periodo così prolungato, rappresenta un fattore di rischio altissimo che può portare ad alterazioni dei ritmi sonno-veglia, a cambi di umore, alla comparsa di ansie. Ovviamente i ragazzi fragili o che hanno storie traumatiche (bullismo, perdita o malattia di un genitore, separazioni) ne risentono di più”. Altri elementi che possono incidere sull’aumento dei suicidi nei giovani sono: “vicinanza” a soggetti che si sono suicidati, che siano familiari o personaggi famosi presi come modello di riferimento, discriminazioni sessuali o etniche vissute, eccessivo utilizzo di internet e abuso di sostanze stupefacenti.

 

Ma come è possibile affrontare queste situazioni? Un ruolo fondamentale ce l’ha la famiglia. “Spesso sono i genitori che per primi leggono i segnali – continua Micheli Mutismo, isolamento, abbandono scolastico, trascuratezza, cambio d’umore sono campanelli d’allarme. Sempre più di frequente si verificano fenomeni di autolesionismo che è diventata purtroppo una via di comunicazione che i giovani utilizzano anche tra loro per gestire emozioni difficili. Fondamentale è non fare finta di niente. Occorre capire, non ignorare, facendosi supportare da figure professionali preparate e specializzate. E occorre non chiudere la relazione con i ragazzi, anche se loro si chiudono. Per le famiglie tutto questo non è facile e spesso servirebbero spazi e occasioni di supporto anche per loro, non solo per i giovani. Il tentato suicidio non segna la fine, ma può essere l’inizio di un percorso e la relazione tra genitori e figli ha un grande potenziale di cura”.

 

Non solo la famiglia, importantissimo è il ruolo della scuola. “Anche la scuola, dove i ragazzi passano tanto tempo, può intercettare i segnali di situazioni a rischio – continua la dottoressa – Non solo, può anche essere luogo di interventi preventivi per insegnare ai ragazzi non solo italiano e matematica, ma anche a gestire lo stress e a fare esperienze insieme ad altri, e per incontrare le famiglie”. Poi ci sono le altre agenzie educative e di animazione. “Sicuramente – dice la dottoressa – l’attenzione sociale globale è la maggior prevenzione possibile. Per questo è importante parlare di questi temi e farlo nel mondo corretto”.

 

A livello di servizi, vincente è la risposta efficace e integrata. “Occorre – spiega la Direttrice – incrementare i trattamenti di cura che scientificamente risultano più efficaci, attraverso la ricerca e la formazione dei professionisti, e occorre dare risposte personalizzate e integrate tra loro. Spesso si tratta di percorsi lunghi ed è importante che che l’approccio sia globale e condiviso, tra specialisti e realtà con cui i giovani entrano in relazione (famiglia, scuola, centro diurno…), tra trattamenti farmacologici e psicoterapici, tra esperienze proposte”.

 

“Eravamo abituati come società ad allontanare la sofferenza e il dolore – è la conclusione di MicheliPoi c’è stato il covid. I ragazzi sono quelli che esprimono maggiormente il disagio che il nostro mondo sta vivendo. Ma sono anche quelli che hanno più risorse per affrontare la vita…e anche la morte”.

 

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